Archivio per marzo, 2020

Covid-19 e Garante privacy

Pubblicato: marzo 30, 2020 in Uncategorized

Come sappiamo, la normativa comunitaria e quella nazionale dedicano una particolare attenzione ai dati sanitari, essendo gli stessi connotati da una maggiore sensibilità. A tal fine, la disciplina privacy consente il trattamento di tali dati soltanto in casi specifici. È bene precisare che il trattamento di dati personali e, specialmente, di dati sanitari, in luogo delle misure di emergenza Covid-2019, trova la propria base giuridica nell’art. 9, par. 2, lett. i) del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali.

Secondo tale riferimento normativo, infatti, il trattamento di dati particolari è consentito in caso di gravi minacce per la salute e la sicurezza sociale. Ci troviamo, infatti, d’innanzi ad una situazione di emergenza in cui occorre bilanciare il bene della collettività con la tutela della dignità dell’individuo.

Si rende, pertanto, necessario un bilanciamento tra i diversi diritti costituzionalmente tutelati. Sul punto, è intervenuto il Garante Italiano della Privacy, il quale, con il Parere del 2 febbraio 2020, ha sottolineato la rilevanza del diritto alla salute, autorizzando modalità semplificate di trattamento in favore della Protezione Civile al fine di rendere efficaci le misure di prevenzione e di contenimento del contagio.

Diritto alla privacy vs. diritto alla salute
L’Autorità Garante ha autorizzato la Protezione Civile ad utilizzare con modalità semplificate tutti i dati raccolti, compresi quelli particolari (dati relativi alla salute), pur in assenza di una previa autorizzazione del Garante, sull’assunto, sopra menzionato, secondo cui il diritto alla privacy cede d’innanzi al diritto alla salute della comunità quando una sua compressione risulta necessaria per scongiurare situazioni di pericolo rilevanti.

Il Garante ha sottolineato, inoltre, la necessità che il trattamento dei dati, affinché sia legittimo, debba avvenire nei soli casi in cui tale utilizzo trovi il suo presupposto nelle fonti normative.

Seguendo il suddetto ragionamento, si può affermare che è legittimo il trattamento dei dati da parte dei Datori di Lavoro nei limiti e con le modalità previste dal Testo Unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/2008). In particolare, la vicenda del Coronavirus pone una questione di rischio biologico. Tale rischio ricorre in tutte le ipotesi in cui l’attività lavorativa espone il lavoratore al contatto con un “agente biologico”, ovvero qualsiasi “microrganismo anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o intossicazioni”.

Qualcuno potrebbe obiettare che il rischio biologico non ricorra nella fattispecie in discussione, in quanto inerente ad aspetti ambientali connessi alle sostanze ed agli strumenti utilizzati nel processo produttivo.

Secondo chi scrive, tali norme necessitano di un’interpretazione estensiva alla luce del generale obbligo del Datore di Lavoro di tutelare i propri dipendenti da tutti rischi connessi all’attività lavorativa. Pertanto, può ritenersi che le stesse trovino piena applicazione anche con riferimento alla peculiare situazione in essere a seguito della diffusione del virus Covid-2019 nel territorio italiano.

Misure di prevenzione
Tra le misure oggi più applicate nei luoghi di lavoro vi sono la dotazione di prodotti antibatterici, mascherine e guanti protettivi. Nonché, nel caso in cui sia stato accertato il contagio di uno o più dipendenti, la predisposizione di controlli della temperatura corporea all’ingresso degli uffici o stabilimenti e limitazioni – totali o parziali – agli accessi ai luoghi di lavoro. Quest’ultima attività dovrà essere svolta dal medico competente o da suo delegato, con tutti i limiti posti dalle norme sulla sorveglianza sanitaria.

Tema altrettanto rilevante è quello della tutela dei luoghi di lavoro rispetto ai visitatori. In alcuni casi, infatti, sono stati somministrati veri e propri questionari sui comportamenti e sui dati sanitari di tali soggetti. Sul punto è intervenuto, nuovamente, il Garante Privacy, il quale ha stabilito nel Comunicato Stampa del 2 marzo 2020, che il compito relativo all’accertamento ed alla raccolta di informazioni relative a potenziali situazioni di contagio – presenza di sintomi influenzali, spostamenti in luoghi considerati a rischio, contatto con persone dei c.d. “focolai”, ecc. – spetta esclusivamente agli organi competenti, rinvenibili negli operatori sanitari nonché nella Protezione Civile. Viene, pertanto, fatto espresso divieto ai soggetti privati, tra cui anche i Datori di Lavoro, di procedere ad autonome indagini così come a specifiche richieste di informazioni.

Inoltre, risulta importante, in tale sede, soffermarsi sulla natura di tale provvedimento dell’Autorità Garante. Invero, si tratta di un Comunicato Stampa. La scelta di tale strumento, probabilmente è dovuta alle stringenti tempistiche nonché alla presa di coscienza della mutevolezza di tale situazione.

Si rileva, tuttavia, la poca chiarezza di tale atto, il quale pone dei limiti alle attività dei soggetti privati senza tener conto degli obblighi posti in capo agli stessi da altre normative di settore, andando così a creare confusione e disallineamento con le altre disposizioni normative.

Da ultimo, a testimonianza di tale contemperamento di interessi, si segnala che, oltre allo scambio di dati tra Forze dell’Ordine ed Autorità sanitarie, la diffusione dei dati personali e di quelli particolari relativi allo stato di salute è consentita anche con riferimento al diritto di cronaca. Invero, il giornalista è libero di trattare i dati personali e particolari purché rispetti il principio di liceità e di essenzialità dell’informazione.

In poche parole, il reporter deve valutare che ci sia l’interesse dell’opinione pubblica alla divulgazione della notizia. Peraltro, anche laddove non vengano indicati i dati personali, gli organi di stampa, riportando i dati epidemiologici relativi a luoghi circoscritti, divulgano notizie ed informazioni che rendono facilmente identificabili i soggetti interessati. Si precisa sul punto che ciò è giustificato, come sopra meglio specificato, dalla sussistenza di un interesse pubblico rilevante.

Quali limiti?
Quanto sin qui esposto mostra come le misure sopra esposte comportano, talvolta, un controllo invasivo nella vita delle persone: il monitoraggio sull’andamento del virus si traduce, infatti, in un conseguente monitoraggio della persona stessa. Estremo è il modello Corea dove è stata sviluppata da parte del Governo, di concerto con le Autorità sanitarie, un’app per tracciare le persone infette o potenzialmente tali.

Si tratta, infatti, di un sistema che, sebbene incentrato sul contenimento del rischio, raccoglie numerose informazioni su ciascun cittadino, con particolare riferimento ai dati sanitari, i quali, come sappiamo, sono connotati da una particolare sensibilità.

Ci si chiede, pertanto, se una tale situazione di emergenza possa portare effettivamente a misure che annullino o rendano quasi nulla la tutela della privacy. Si pensi al caso di tale app: può la limitazione del rischio contagio portare alla predisposizione di simili strumenti che invadono così tanto la sfera personale dell’individuo?

Detto in altri termini, è ammesso pensare al Big Brother come deus ex machina per porre rimedio a tale critica circostanza?

A tale quesito ha risposto Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali

“Non si tratta – dice a Repubblica – di sospendere la privacy, ma di adottare strumenti efficaci di contenimento del contagio, pur sempre nel rispetto dei diritti dei cittadini”.

C’è bisogno di uno strumento legislativo ad hoc per attuare questo protocollo? Quale?

“La disciplina di protezione dei dati coniuga esigenze di sanità pubblica e libertà individuale, con garanzie di correttezza e proporzionalità del trattamento. Ma una misura quale il contact tracing, che incide su un numero elevatissimo di persone, ha bisogno di una previsione normativa conforme a questi principi. Un decreto-legge potrebbe coniugare tempestività della misura e partecipazione parlamentare. Va da sé che la durata deve essere strettamente collegata al perdurare dell’emergenza”.

Come si evitano gli abusi nel trattamento dei dati? Come ci si difende da intrusioni malevole?

“La nostra disciplina offre gli strumenti per minimizzare il pericolo di abusi, secondo i principi di precauzione e prevenzione, che impongono misure di sicurezza e garanzie di protezione dati già nella fase di progettazione e impostazione della struttura tecnologica. Rispettando questi criteri, si può valorizzare al massimo grado l’innovazione”.

Si può immaginare uno scambio di dati criptato o anonimizzato?

“Lo scambio e, prima ancora, la raccolta dei dati devono avvenire nel modo meno invasivo possibile per gli interessati, privilegiando l’uso di dati pseudonimizzati (ove non addirittura anonimi), ricorrendo alla reidentificazione laddove vi sia tale necessità, ad esempio per contattare i soggetti potenzialmente contagiati. Nella complessa filiera in cui si articolerebbe il contact tracing, soggetti privati – a partire dalle grandi piattaforme – dovrebbero porre il patrimonio informativo di cui dispongono a disposizione dell’autorità pubblica, alla quale dovrebbe invece essere riservata la fase dell’analisi dei dati, che necessita delle garanzie e della responsabilità degli organi dello Stato. In ogni caso, le società coinvolte in questo progetto dovrebbero possedere requisiti di affidabilità e trasparenza di azione. Nella valutazione è fondamentale il vaglio di conformità ai requisiti di protezione dati, per la garanzia dei diritti degli interessati, per l’attendibilità dell’analisi dei dati e anche per la sicurezza nazionale. Non sottovaluterei l’odierno richiamo in proposito da parte del Copasir”.

Come si potrà poi tornare alla “normalità” una volta finita emergenza?

“La chiave è nella proporzionalità, lungimiranza e ragionevolezza degli interventi, oltre che nella loro temporaneità. Il rischio che dobbiamo esorcizzare è quello dello scivolamento inconsapevole dal modello coreano a quello cinese, scambiando per efficienza la rinuncia a ogni libertà e la delega cieca all’algoritmo per la soluzione salvifica”.


Le società a responsabilità limitata – come tutte le altre società di capitali – rispondono delle obbligazioni sociali esclusivamente con il proprio patrimonio (2462 cod. civ.) .

I creditori sociali, in caso di insolvenza di una società di capitali o nel nostro caso di una società a responsabilità limitata, non potranno dunque recuperare il proprio credito mediante l’escussione dei beni di proprietà personale dei singoli soci o dell’amministratore della srl.

Tale principio non ha, contrariamente a quanto generalmente si pensi, carattere assoluto.

Vi sono dei casi, infatti, in cui gli amministratori rispondono dei debiti contratti dalla società (pur se a responsabilità limitata) che amministrano.

Le società a responsabilità limitata, infatti e tutte le società di capitali infatti hanno “un’autonomia patrimoniale c.d. perfetta”: il patrimonio della società a responsabilità limitata è, pertanto, del tutto autonomo e distinto rispetto a quello dei soci e dell’amministratore.

La responsabilità patrimoniale dei soci, per le obbligazioni sociali della società a responsabilità limitata, è circoscritta esclusivamente:

a) ai conferimenti di beni e danaro effettuati in sede di costituzione della società;
b) agli apporti di beni e denaro eseguiti successivamente a favore della società, in conto capitale.
Nella società di persone (società semplice, società in nome collettivo e società in accomandita semplice) al contrario, si parla di autonomia patrimoniale imperfetta in quanto il patrimonio dei soci illimitatamente responsabili, sia pur distinto da quello societario, può essere aggredito dai creditori sociali nel momento in cui il credito verso la società non sia stato soddisfatto dalla escussione dei beni sociali.

I creditori di una società di persone hanno – in ogni caso – l’obbligo della preventiva escussione dei beni societari e, solo qualora il credito resti insoddisfatto, potranno aggredire, in via esecutiva, il patrimonio personale dei singoli soci ai fini del recupero del loro credito.

Già in un precedente scritto si era avanzata la tesi della esistenza di una responsabilità degli amministratori di s.r.l. nei confronti dei creditori sociali, malgrado l’art.2476 c.c. non prevedesse espressamente, nel testo vigente fino al 15 marzo 2019, un’azione di responsabilità esperibile dai creditori sociali nei confronti degli amministratori né vi fosse alcun riferimento all’art.2934 c.c. in tema di società per azioni.

L’ipotesi proposta era infatti che i creditori sociali, infatti, potessero

o surrogarsi nei diritti della società proponendo, in luogo di quest’ultima, l’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’organo amministrativo,
ovvero far valere una responsabilità da atto illecito ex art. 2043 c.c. per il danno ingiusto causato da amministratori con condotta, dolosa o colposa, in violazione dei doveri ad essi imposti ( Cassazione civile sez. I 3 giugno 2010, n. 13465).
Presupposto dell’esercizio di tale azione veniva individuato nella “inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale” potendo l’azione essere proposta quando “il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti”.

Veniva dunque ipotizzata una responsabilità diretta e personale dell’amministratore nei confronti del creditore sociale dunque, come conseguenza della sua mala gestio, giusto contrappeso alla responsabilità limitata della società.

Si pensi, ad esempio, al caso in cui l’amministratore presenti infedeli dichiarazioni dei redditi o bilanci societari irregolari. E’ evidente che l’amministratore risponderà con il proprio patrimonio personale, in solido con la società, per le conseguenze sanzionatorie a carico della stessa, atteso, che come ha avuto modo di osservare la Suprema Corte (Cass. Civ. n. 27036/2007) , “la redazione, approvazione e presentazione del Bilancio di esercizio, nonché la dichiarazione dei redditi, sono atti affidati per funzione all’amministratore e legale rappresentante della stessa“, e per questo – sotto il profilo delle responsabilità fiscale e patrimoniale – a questi imputabili.”

Ciò significa che gli amministratori che hanno presentato in maniera fraudolenta documenti fiscali per conto della società, causando accertamenti e rettifiche a carico della stessa, ne sono responsabili in solido e, in caso di inadempienza della società, vedranno escusso il proprio patrimonio personale ai fini del pagamento delle somme dovute all’erario.

Altri esempi di responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali sono rinvenibili negli art. 2485 e 2486 cod.civ.

Tali norme dispongono la responsabilità degli amministratori nei confronti della società, dei soci, dei creditori sociali e dei terzi per eventuali danni subiti per effetto di ritardato o omesso accertamento di una causa di scioglimento della società e per violazione dell’obbligo di gestire la società, al verificarsi di una causa di scioglimento, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale.

In ogni caso, l’azione proposta “dal ceto creditorio” nei confronti del patrimonio degli amministratori andrà valutata caso per caso, in funzione della possibilità di provare, a carico degli stessi, una condotta dolosa e direttamente finalizzata “alla distrazione del patrimonio sociale”.

In tale contesto si pone il testo del nuovo art. 2476 co. 6, inserito dall’art. 378, comma 1, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 ed in vigore dal 16.3.2019:

“” Gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. L’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. La rinunzia all’azione da parte della società non impedisce l’esercizio dell’azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l’azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi.“”
La norma sembra delineare una responsabilità dell’amministratore di srl di tipo extra contrattuale per i debiti sociali, nella specie per mancato per lesione di un diritto di credito.

Così delineata, la responsabilità dell’amministratore di srl per debiti sociali verso i creditori sembra riconducibile ad una responsabilità di tipo extracontrattuale.

Così qualificata, la responsabilità verso i creditori sociali dell’amministratore di srl pone un problema di prova: l’azione del creditore della srl contro l’amministratore potrà infatti essere proposta:

quando il patrimonio della srl risulti insufficiente al soddisfacimento di quanto dovuto al creditore della società e
dimostrando l’inosservanza, da parte dell’amministratore di srl, degli obblighi inerenti alla conservazione della integrità del patrimonio sociale.
Si tratta di una prova non certo semplice ma, certamente, pone un primo argine all’utilizzo della srl come agile strumento di “irresponsabilità patrimoniale” di amministratori e soci, destinati a sfuggire ad ogni sorta di responsabilità patrimoniale per le obbligazioni sociali.

Giova ricordare, inoltre, come il riconoscimento della responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali appare necessario al fine di consentire l’esercizio di tale azione anche da parte del curatore del fallimento.

In tale modo il curatore avrebbe a disposizione uno strumento in più oltre quelli previsti in via generale dall’art. 146 della legge fall. (azione sociale di responsabilità e azione contro i soci che abbiano intenzionalmente deciso, o autorizzato, il compimento di atti pregiudizievoli per la società, i soci o i terzi).

Questa opinione è confermata anche da un recente orientamento giurisprudenziale, secondo cui il curatore disporrebbe della legittimazione ad esperire, nei confronti degli organi gestori di una s.r.l, sia l’azione sociale di responsabilità sia l’azione dei creditori sociali.

Sono almeno tre le questioni penalistiche d’interesse sulle quali soffermarsi: – la rilevanza delle condotte omissive delle Autorità di Governo; – le responsabilità penali riferibili a casi teorici dai contorni indefiniti come quelli dell’untore; – la responsabilità degli operatori sanitari per condotte omissive e rilevanti in relazione alla diffusione colposa di epidemia.

Innanzitutto ci si chiede, di fronte alla situazione concreta che si è prospettata, se sia ipotizzabile che le decisioni delle Autorità, in un contesto ben definito di precisi ruoli e responsabilità, non solo politiche ma anche a livello giuridico, possano in qualche modo configurare delle condotte di rilevanza penale in relazione alla gestione dell’intera vicenda, dal 30 gennaio 2020 (data di dichiarazione da parte dell’OMS dello stato di emergenza di sanità pubblica internazionale) ad oggi.

Ciò soprattutto a fronte dei provvedimenti adottati, a tratti tardivi e/o inorganici (ad es. perché chiudere in un primo momento le università e non anche, contemporaneamente e subito, gli uffici e/o i Tribunali?). Alcune scelte hanno provocato confusione, aggravando l’emergenza sanitaria, fermando di fatto il Paese e incidendo gravemente sull’economia italiana che rischia una grave recessione. In realtà, sarebbero diversi gli interrogativi sulla gestione dell’emergenza da parte delle Autorità di Governo. A riassumerli: quanto accaduto nella notte tra il 7 e l’8 marzo ne rappresenta l’evento emblematico. Il riferimento è alla fuga di notizie sulla chiusura della Lombardia e alla conseguente fuga dalle zone a rischio di centinaia di persone in preda al panico verso le regioni del Sud Italia.5

In tal caso la norma del nostro ordinamento astrattamente applicabile al caso concreto potrebbe essere l’art. 452 del codice penale in relazione all’art. 438 c.p. ove è disposto che Chiunque per colpa (l’evento si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline) cagiona una epidemia mediante la diffusione di germi patogeni, è punito con la reclusione da 3 a 12 anni.

La fuga improvvisa dalle zone a rischio ha lasciato nella totale incertezza i Sindaci e le Autorità sanitarie locali delle Regioni del Sud sulle misure concrete da adottare nei confronti dei soggetti che irresponsabilmente erano fuggiti dal Nord per dirigersi nei territori d’origine, tanto da costringere alcuni Presidenti delle Regioni (es. Campania, Puglia), e poi i Sindaci, ad emanare proprie ordinanze con cui stabilivano l’obbligo della comunicazione e l’obbligo di quarantena per tutte le persone arrivate da quei luoghi, al fine di contenere l’epidemia

Le responsabilità penali per il contagio da epidemia
Il rientro nei territori d’origine di centinaia di persone, con il virus in via di notevole diffusione, rischia di trasformare l’emergenza in un disastro sanitario, considerando le deficienze della sanità di alcune regioni del Meridione rispetto ad altre zone d’Italia. E’ d’obbligo, a questo punto, soffermarsi sulla condotta tenuta da coloro che, trovandosi in una zona rossa o ad alto rischio di contagio, recatosi altrove pur non sapendo di essere stati contagiati, non abbiano rispettato la quarantena e/o non abbiano comunicato i propri spostamenti, avendo contatti con altre persone. Risultati successivamente positivi al Covid-19, la loro condotta precedente potrebbe integrare il reato di epidemia?

La scienza medica ha sinora identificato come epidemia ogni malattia infettiva o contagiosa suscettibile, per la propagazione dei suoi germi patogeni, di una rapida ed imponente manifestazione in un medesimo contesto e in un dato territorio colpendo un numero di persone tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato di individui.

La nozione penalistica di epidemia, invece, colloca il reato ex art. 438 c.p. tra quelli a forma vincolata nella cui descrizione normativa non sarebbe ricompreso il contagio umano. L’integrazione del delitto richiederebbe che l’autore abbia il possesso fisico di germi patogeni e che si renda responsabile non di singole condotte di trasmissione di agenti patogeni, ma dello spargimento di questi germi in un’azione tesa a infettare, in modo repentino e incontrollabile, una pluralità indeterminata di persone.

Una recente pronuncia della Cassazione ha affermato il seguente principio: “Ai fini della configurabilità del reato di epidemia può ammettersi che la diffusione dei germi patogeni avvenga anche per contatto diretto fra l’agente, che di tali germi sia portatore, ed altri soggetti, fermo restando, però, che da un tale contatto deve derivare la incontrollata e rapida diffusione della malattia tra una moltitudine di persone” (Cass. Pen. sez. I , 26 novembre 2019, n. 48014)

L’orientamento maggioritario milita nel senso di ritenere che, trattandosi di un reato di evento qualificato dal pericolo, da accertare in concreto, l’oggetto della tutela apprestata dalla norma incriminatrice è rappresentato dall’obiettivo di evitare il diffondersi di altri contagi. Dunque, alla luce del principio di offensività, soltanto i fenomeni epidemici qualificabili quale “disastro sanitario” sarebbero attinti dalla tipicità propria della fattispecie penale. In sostanza, a rilevare sarebbe non tanto il contagio avvenuto quanto, piuttosto, la pericolosità di potenziali ed ulteriori contagi.

La nozione di epidemia codicisticamente rilevante è più ristretta della qualificazione accolta in ambito sanitario. La nozione di cluster epidemico, ossia di un’aggregazione di casi di infezione collegati tra loro in una determinata area geografica e in un determinato periodo e che ben descriva il fenomeno causato dalle condotte di contagio, non equivale alla nozione di epidemia, a cui inerisce strutturalmente il profilo della consistenza del dato quantitativo, del numero particolarmente elevato di soggetti infettati. Laddove il fenomeno sia apparso quantitativamente circoscritto, si avrebbe dunque un cluster epidemico e non una epidemia nel senso ad essa attribuito dalla legge penale.

Ad assumere centralità ai fini dell’integrazione del reato di epidemia sarebbe la condotta di “diffusione” che, secondo la ratio che ha ispirato il legislatore, consisterebbe nello spargimento dei germi al fine di colpire in tempi brevi un numero elevato di soggetti, non potendo il contagio umano che si realizza mediante contatto fisico con le vittime essere ricondotto alla nozione normativa di diffusione.

Quindi nelle modalità di manifestazione concreta, sebbene ad avviso della giurisprudenza non rilevi il tipo di condotta diffusiva, purché essa sia idonea a cagionare un’epidemia, il reato incontra una notevole difficoltà pratica ad integrare gli estremi della fattispecie criminosa, ragion per cui pochissime sono state le pronunce giurisprudenziali, per lo più di merito per casi di salmonella, definite con esiti assolutori.

Da un lato, certamente non si può escludere che nella nozione di diffusione non rientrino le forme di contagio per contatto fisico tra agente e vittima; dall’altro, secondo la giurisprudenza di legittimità il contagio non può porsi come antecedente causale del fenomeno epidemico.

Nell’individuazione di responsabilità penalmente rilevanti verrebbe ancora in rilievo il consolidato principio di diritto pronunciato sin dal 2008 dalle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione: l’evento tipico dell’epidemia si connota per diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido e autonomo sviluppo entro un numero indeterminato di soggetti, per una durata cronologicamente limitata. (Cass. Sez. Un., sent. n. 576 dell’11 gennaio 2008).

Orbene, il discrimine tra la rilevanza della condotta sub specie del delitto in questione e l’irrilevanza della stessa, sarebbe rappresentato dal dato temporale entro cui si verifica il contagio, che contribuisce a qualificare la fattispecie in termini di reato di pericolo concreto per la pubblica incolumità, ovvero la facile trasmissibilità della malattia ad una cerchia di persone ancora più ampia.

La rilevanza penale delle condotte omissive e il difficile accertamento del nesso di causalità
Il quadro sinora descritto circoscrive la punibilità per il reato di epidemia alle sole condotte che abbiano cagionato l’evento secondo un preciso percorso causale, e cioè mediante la propagazione volontaria o colpevole di germi patogeni, come potrebbe essere nel caso dell’untore, cioè del soggetto che pur essendo consapevole di essere portatore di un virus potenzialmente trasmissibile intrattenga rapporti con altre persone. Cosa accadrebbe, invece, nel caso di un comportamento omissivo del sanitario?

Sempre in relazione alla vicenda del Covid-19 è dei giorni scorsi l’apertura di una prima inchiesta. La notizia è relativa ad un possibile nuovo “cluster epidemico”, a seguito del caso del 75enne deceduto in provincia di Foggia, successivamente risultato positivo al Coronavirus, la cui salma sarebbe stata rilasciata dal medico della struttura sanitaria prima di conoscere l’esito del tampone, così mettendo a rischio l’incolumità pubblica per il possibile contagio decine di persone, molte delle quali sebbene fossero in quarantena, avrebbero partecipato anche alle esequie. Secondo le fonti giornalistiche, sulla vicenda la Procura della Repubblica di Foggia avrebbe aperto un’indagine conoscitiva, in considerazione del carattere particolarmente diffusivo dell’epidemia, che non consentirebbe errori di sorta, al fine di scongiurare il peggio e nell’ottica di tutela della pubblica incolumità.

Il medico potrebbe incorrere in responsabilità penale? Quali sarebbero in tal caso i possibili criteri di ascrizione del fatto tipico epidemico a fronte di una condotta omissiva dell’operatore sanitario? Un orientamento dottrinale e giurisprudenziale minoritario, interrogandosi sulle ricadute applicative della fattispecie di epidemia a forma vincolata, tenuto altresì conto della impossibilità pratica di contestare il reato nei casi di condotte omissive, si è posto il problema di valorizzare la fattispecie come reato a forma libera, al fine di renderla compatibile con la clausola di cui all’art. 40 co. 2 c.p.

Tuttavia, il tentativo non ha trovato accoglimento e nell’unica occasione in cui tale soluzione è stata avanzata e prospettata, la Cassazione ha precisato che la responsabilità per il reato di epidemia colposa non è configurabile a titolo di omissione: in tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera. (Cassazione penale sez. IV, 12/12/2018, n. 9133).

Si deve ritenere, pertanto, inapplicabile la fattispecie contestata in forma colposa con la conseguenza che il reato di epidemia può riferirsi solo ad una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con l’art. 40 co. 2 c.p. La clausola di equivalenza di cui all’art. 40 cpv. e la responsabilità omissiva, o per omesso impedimento di un evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire, è incompatibile con la natura giuridica del reato di epidemia.

In caso di reati colposi e, in particolare, in quelli per responsabilità medica derivanti da condotte omissive degli operatori sanitari, ad illuminare il percorso interpretativo in materia di causalità sarebbe sempre, ancora una volta, la sentenza Franzese : “il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio contro fattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica universale o statistica si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal soggetto agente la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”.

Alla luce di tali considerazioni la responsabilità penale del medico che non impedisce un evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire o agisce per colpa o imperizia, di chi aveva un obbligo giuridico di impedire l’evento e non si è immediatamente attivato in tal senso, potranno rilevare in relazione ad altre ipotesi delittuose che prevedono fattispecie di reati contro la vita o l’incolumita’ individuale.

Tuttavia la difficoltà, rectius l’impossibilità di accertamento del nesso di causalità tra la condotta e i singoli episodi di contaminazione cui conseguono danni alla salute, lesioni e/o morte, non esclude che in futuro possa indurre la giurisprudenza, attraverso un’interpretazione estensiva della condotta di “diffusione”, ad avallare la realizzazione del reato di epidemia anche attraverso condotte di tipo omissivo.

Allo stesso modo, sempre la difficoltà dell’accertamento causale, non consente di escludere che la contestazione di un delitto contro la pubblica incolumità quale l’epidemia o la diffusione colposa di epidemia, sia una scelta obbligata per l’Autorità Giudiziaria procedente, anche laddove non siano integrati quei criteri di diffusività e trasmissibilità dell’epidemia tali da poter parlare effettivamente di “disastro sanitario”.

CORONAVIRUS E LOCAZIONI COMMERCIALI

Pubblicato: marzo 16, 2020 in Uncategorized

Com’è noto, su tutto il territorio nazionale per effetto dei DPCM dell’8, del 9 e dell’11 marzo 2020: sono sospese tutte le attività commerciali al dettaglio, le attività di ristorazione e bar; le attività di palestre, centri sportivi, piscine, centri natatori, centri benessere, centri termali, centri culturali, centri sociali, centri ricreativi;

Sorge spontanea la domanda se gli esercenti di queste attività non possano invocare, un principio di “forza maggiore” per sospendere il pagamento dei canoni di affitto o di locazione.

In questo caso vengono in rilievo le norme di cui agli articoli 1256 e 1467 del codice civile che disciplinano le ipotesi della sopravvenuta impossibilità e della eccessiva onerosità della prestazione, in raccordo con le norme di cui all’articolo 1218, 1258 e 1464 c.c

-l’art. 1256 del codice civile che prevede che l’obbligazione si estingua quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa (definitivamente) impossibile; laddove l’impossibilità sia invece solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non sia responsabile del ritardo nell’adempimento;

Con riferimento agli effetti complessivi nell’ambito di un contratto con prestazioni corrispettive:

l’art. 1463 del codice civile che prevede che la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non possa chiedere la controprestazione, e debba restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito.
l’art. 1464 del codice civile che prevede che quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte abbia diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e possa recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.

Non vi è dubbio che l’epidemia e i provvedimenti volti al suo contenimento rispondano ai requisiti di imprevedibilità ed inevitabilità codificati dalla giurisprudenza impegnata ad analizzare gli eventi che rendono l’inadempimento impossibile e non ne consentano l’addebitabilità alla parte inadempiente.

Più problematico invece può essere tradurre i divieti disposti dai DPCM in termini di impossibilità di una prestazione tipica del locatore o del conduttore quantomeno nel contratto di locazione commerciale.

È quindi necessaria una ricostruzione in termini più ampi della nozione di impossibilità che la svincoli dalle singole prestazioni dedotte in contratto. Soccorre a tal fine la più ampia ricostruzione proposta da una relativamente recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. III, 10 luglio 2018, n. 18047). La richiamata sentenza ha affermato il principio che “l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione”. La sentenza fa infatti leva sulla valorizzazione, ai fini della qualificazione dell’impossibilità sopravvenuta, della causa del contratto, intesa (secondo un orientamento consolidatosi in tempi recenti) come “causa in concreto” ovvero lo scopo pratico del contratto costituente sintesi degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare. Vengono così in rilievo, come presupposto della causa, i motivi che hanno indotto le parti a stipulare il contratto e le finalità da esse perseguite, siano essi condivise o riferibili ad una sola parte ma dall’altra chiaramente riconoscibili. Laddove un evento non prevedibile e non imputabile renda non più perseguibili le finalità condivise o riconoscibili che hanno motivato le parti a stipulare il contratto, sostanziandone la causa in concreto, si verifica pur sempre un’impossibilità della prestazione, con conseguente applicazione della relativa disciplina.

Nel caso che ci occupa è quindi ben possibile argomentare che l’impossibilità sia sostanziata dal venir meno, per effetto delle sospensioni disposte con i DPCM, della possibilità del conduttore di fruire della prestazione del locatore.

Bisogna inoltre capire come questo si declini nel caso in cui, come quello che ci occupa, l’impossibilità della prestazione sia solo temporanea in un contratto per sua natura ad esecuzione continuata come la locazione e l’affitto.

A tal fine soccorrono gli indici interpretativi che emergono dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione formatasi in materia di rapporti di lavoro subordinato in cui vengano meno, per circostanze esterne ed imprevedibili, le condizioni per la fruizione da parte del datore di lavoro della prestazione del lavoratore. In particolare Cassazione civile sez. lav. – 16/06/2003, n. 9635 ha affermato che la sospensione unilaterale del rapporto di lavoro “quando quest’ultima sia divenuta inutilizzabile non nell’aspetto economico o per deficienze di programmazione, di previsione o di organizzazione aziendale, bensì per un fatto sopravvenuto non prevedibile, il datore di lavoro non incorre in responsabilità per l’unilaterale sospensione da lui disposta e, in particolare, non è tenuto al pagamento delle retribuzioni per il periodo di sospensione.” (peraltro conforme alle meno recenti Cassazione civile sez. lav. – 30/03/1998, n. 3344 e Cassazione civile sez. lav. – 06/03/1990, n. 1767).

Per l’applicazione di analogo principio in materia di locazione, si veda Pretura – Napoli, 15/01/1992, in Archivio delle Locazioni 1992, 457, che ha affermato che “In tema di rapporti di locazione si deve ritenere che solo la distruzione dell’immobile o la perdita delle caratteristiche essenziali all’uso cui lo stesso era destinato comportino la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta definitiva della prestazione del locatore. Deve, al contrario, ritenersi che il mero danneggiamento dell’immobile non impedisca la prosecuzione del rapporto, che resterà sospeso durante il tempo occorrente per l’effettuazione delle riparazioni indifferibili essendo queste ultime causa di impossibilità solo temporanea della prestazione del locatore.”

Alla luce di quanto sopra esposto ritengo che il conduttore ed affittuario che fossero chiamati in giudizio per il pagamento dei canoni dovuti nel periodo di durata dei provvedimenti di sospensione della loro attività, e limitatamente alle attività oggetto di sospensione, possano legittimamente invocare le norme relative all’impossibilità sopravvenuta a giustificazione dell’inadempimento.

In effetti, il conduttore non può, per una causa a lui estranea, utilizzare l’immobile per la ragione per cui lo aveva affittato.

Certamente il conduttore continua ad avere la disponibilità dell’immobile, ma è venuta meno la possibilità che questa disponibilità realizzi lo scopo perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto.

Da ciò deriva una legittima sospensione del pagamento dei canoni di affitto per tutto il tempo in cui saranno in vigore le limitazioni di cui alla decretazione d’urgenza, oltre al diritto di reclamare il rimborso della parte di canone non goduto.

Ricapitolando: Nel caso concreto, si può invocare il “coronavirus” quale causa legittima di inadempienza dei contratti di locazione commerciale, muovendosi non in base alle norme che riguardano il contratto di locazione, bensì facendo riferimento alle disposizioni che regolano il rapporto obbligatorio.

Infatti, come sopra specificato, “L’impossibilità sopravvenuta” (1256 c.c.) è una causa di legittima estinzione dell’obbligazione, oppure, a seconda delle circostanze, di giustificazione del ritardo nell’adempimento.

Tale impossibilità, per essere giuridicamente rilevante, deve avere a riferimento un evento eccezionale ed imprevedibile, estraneo alla sfera del debitore ed idoneo a provocare un impedimento obiettivo ed insormontabile allo svolgimento della prestazione.

Si parla in tal senso di “causa di forza maggiore”, come epidemie, catastrofi, guerre, che rientrano tra le cause di forza maggiore idonee a giustificare l’inadempimento o a ritardare l’adempimento.

Invece “l’eccessiva onerosità sopravvenuta” (art. 1467 c.c.), presuppone non già l’impossibilità di adempiere, ma una grave alterazione dell’equilibrio tra il valore delle prestazioni corrispettive causata da eventi straordinari, imprevedibili e successivi all’assunzione dell’impegno.

In questo caso il rimedio previsto dal codice è quello della risoluzione del contratto, ma il creditore può evitarla offrendo una equa modifica delle condizioni.

Il coronavirus COVID-19 e le misure di contenimento imposte dai governi nazionali stanno influenzando negativamente la capacità delle aziende, soprattutto quelle cinesi e italiane, di adempiere ai contratti commerciali sottoscritti e rischia di colpire – come già sta accadendo – diversi operatori economici in settori fondamentali della “vita aziendale”, dalla produzione alla c.d. supply chain in generale, dalla logistica alla gestione del prodotto, alle locazioni.

Tale impatto, da un punto di vista strettamente giuridico, potrebbe comportare un possibile aumento del rischio di “inadempimento contrattuale” da parte di quelle ditte che – in buona fede – hanno assunto particolari obbligazioni commerciali, nell’ambito del territorio nazionale e rette dalla legge italiana, sulle quali l’epidemia sembrerebbe avere effetti sospensivi se non addirittura estintivi[1].


COVID-19 e inadempimento contrattuale: l’art. 1218 c.c.
Sul punto, giova evidenziare che l’inadempimento contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c., è costituito dalla mancata esecuzione di una prestazione qualora sia carente, da parte, dell’obbligato, l’impegno di diligenza e di cooperazione richiesto, secondo il tipo di rapporto obbligatorio, per la realizzazione dell’interesse del creditore, ciò nel presupposto che la prestazione sia soggettivamente possibile[2]. In buona sostanza, la difficoltà nell’adempimento non impedisce la prestazione, con conseguente liberazione del debitore, ma costituisce soltanto un ostacolo che il debitore è tenuto a superare con la dovuta diligenza.

Ed invero, il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto – espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 della Costituzione – impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di «agire in modo da preservare gli interessi dell’altra»[3] e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali.

Ciò brevemente detto, al fine di esonerarsi dalle conseguenze dell’inadempimento delle obbligazioni contrattualmente assunte, il debitore deve provare che l’inadempimento è stato determinato da “causa a sé non imputabile” la quale è costituita non già da ogni fattore a lui estraneo che lo abbia posto nell’impossibilità di adempiere in modo esatto e tempestivo, bensì solamente da quei fattori che «da un canto, non siano riconducibili a difetto della diligenza che il debitore è tenuto ad osservare per porsi nelle condizioni di adempiere e, d’altro canto, siano tali che alle relative conseguenze il debitore non possa con eguale diligenza porre riparo»[4].

In sintesi, dunque, l’art. 1218 c.c. è strutturato in modo da porre a carico del debitore, per il solo fatto dell’inadempimento, una presunzione di colpa iuris tantum, superabile mediante la prova dello specifico inadempimento che abbia reso impossibile la prestazione o almeno la dimostrazione che, qualunque sia stata la causa dell’impossibilità, la medesima non possa essere imputabile al debitore.

L’art. 1256 c.c.: impossibilità della prestazione e il “factum principis”
In materia di inadempimento contrattuale, non può non rilevarsi che, ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa “impossibile”; se tale impossibilità è solo temporanea, inoltre, il debitore, nelle more della stessa, non è responsabile del ritardo nell’adempimento[5].

La liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della prestazione, dunque, può verificarsi – ai sensi dell’art. 1256 c.c. – solo se ed in quanto concorrano l’elemento obiettivo della impossibilità di eseguire la prestazione medesima, in sé considerata, e quello soggettivo dell’assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell’evento che ha reso impossibile la prestazione[6].

Tra le cause invocabili ai fini della richiamata “impossibilità della prestazione”, rientrano – per quanto qui di interesse – gli ordini o i divieti sopravvenuti dell’autorità amministrativa c.d. “factum principis”: si tratta, in concreto, di provvedimenti legislativi o amministrativi, dettati da interessi generali, che rendano impossibile la prestazione, indipendentemente dal comportamento dell’obbligato[7]. In sintesi, trattasi di circostanza che funge da esimente della responsabilità del debitore a prescindere dalle previsioni contrattuali in essere.

Si badi, a tal proposito, che – secondo la migliore giurisprudenza – l’impossibilità nell’adempimento contrattuale non può essere invocata qualora il factum principis sia «ragionevolmente e facilmente prevedibile, secondo la comune diligenza, all’atto dell’assunzione dell’obbligazione» ovvero «rispetto al quale non abbia sperimentato tutte le possibilità che gli si offrivano per vincere o rimuovere la resistenza della pubblica amministrazione»[8].

Nell’ipotesi, invece, di impossibilità temporanea, l’art. 1256 c.c. si limita ad escludere, finché detta impossibilità perdura, la responsabilità del debitore per il ritardo nell’adempimento. Pertanto, in via generale, il debitore, cessata la suddetta impossibilità, deve sempre eseguire la prestazione, indipendentemente da un suo diverso interesse economico che può, eventualmente, far valere sotto il profilo dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.


L’art. 1467 c.c.: gli “avvenimenti straordinari ed imprevedibili”
L’impossibilità sopravvenuta va ben distinta dall’eccessiva onerosità sopravvenuta. Quest’ultima, in estrema sintesi, non impedisce la prestazione, ma la rende più “onerosa”, consentendo al debitore di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione della prestazione.

L’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per poter determinare, ai sensi dell’art. 1467 c.c., la risoluzione del contratto richiede, tuttavia, due requisiti: (I) un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto e (II) la riconducibilità della eccessiva onerosità ad “eventi straordinari ed imprevedibili”, che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale. In particolare, il carattere della “straordinarietà” deve essere valutato in modo oggettivo, dovendosi qualificare in base alla frequenza dell’evento, alle dimensioni, all’intensità ecc.; l’“imprevedibilità” ha natura, invece, soggettiva, «facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza»[9].

Per configurare l’eccessiva onerosità sopravvenuta, dunque, è necessario che gli avvenimenti straordinari ed imprevedibili[10] determinino un aggravio patrimoniale che alteri, sostanzialmente, l’originario rapporto di equivalenza, incidendo sul valore di una prestazione rispetto all’altra, ovvero facendo diminuire o cessare l’utilità della controprestazione.

Va da sé, dunque, che la domanda di risoluzione di un contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione deve essere corredata dalla rigorosa prova del fatto la cui sopravvenienza abbia «determinato una sostanziale alterazione delle condizioni del negozio originariamente convenuto tra le parti e della riconducibilità di tale alterazione a circostanze assolutamente imprevedibili»[11].

Infine, l’art. 79 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci, ratificata dall’Italia e dalla Cina, definisce la forza maggiore come l’impedimento fuori dal controllo di una parte, non ragionevolmente prevedibile al momento della sottoscrizione del contratto, inevitabile e non superabile.

Secondo l’Unidroit, l’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato, le cause di forza maggiore sono quelle che:
– esulano dal controllo della parte obbligata,
– implicano un impedimento (o delle conseguenze) che la parte non poteva prevedere al momento dell stipula del contratto, che non poteva evitare o superare.

COME RISOLVERE LA SITUAZIONE DELLE AZIENDE
L’unico modo per sbrogliare le inevitabili matasse in cui molte aziende e, di conseguenza, molti consulenti legali si ritroveranno, è valutare il contratto stipulato.

Si dovranno esaminare le clausole e verificare – soprattutto nel caso di controparti straniere- il foro competente e la legge di riferimento.

Anche qualora figurassero delle chiare clausole per la gestione di ritardi e inadempimento contrattuale per causa di forza maggiore, bisognerà però capire se il coronavirus rientri o meno in questa fattispecie.

Il concetto di ‘forza maggiore’ non è infatti univoco e pertanto va valutato caso per caso.

Riprendendo i principi indicati dall’Unidroit, esempi di causa di forza maggiore sono le catastrofi naturali, ma anche eventi umani come guerre, atti di terrorismo, rivolte, scioperi e misure governative.

Il coronavirus potrebbe rientrare nella categoria delle catastrofi naturali, ma anche in quella degli eventi umani, a causa degli impedimenti generati dalle misure di contenimento adottate dalle autorità locali (quarantene, limiti alla circolazione di merci e persone, ecc.).

Se il coronavirus fosse effettivamente considerato causa di forza maggiore, questo non escluderebbe una certa responsabilità da parte del soggetto inadempiente.
Vanno infatti valutati:
– in che modo l’evento ha condizionato l’adempimento delle obbligazioni contrattuali,
– il rispetto degli obblighi stabiliti dal contratto,
– la già citata diligenza da parte del debitore una volta verificatosi l’evento (se ha informato tempestivamente la controparte, e se ha adottato le misure necessarie ad arginare le cause dell’evento il diffondersi del virus all’interno della sua azienda per evitare stop alla produzione/fornitura).

In conclusione, almeno in via teorica il coronavirus può essere considerato una causa di forza maggiore che genera inadempimento contrattuale.
Nella pratica, ogni caso dovrà essere valutato a sé.


Per i legali che seguono aziende che intrattengono relazioni commerciali con la Cina, segnaliamo che il China Council for the Promotion of International Trade (agenzia accreditata presso il Ministero del Commercio Cinese) fornisce certificati che attestano che l’eventuale ritardo o l’inadempimento contrattuale per causa di forza maggiore sono diretta conseguenza dell’epidemia di coronavirus.
Inoltre, segnaliamo che durante e a seguito dell’epidemia di SARS del 2003, diversi arbitrati e tribunali cinesi hanno riconosciuto la sussistenza della causa di forza maggiore.

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Alla luce del complesso quadro fattuale, non è semplice stabilire se il Coronavirus – o le misure adottate dalle autorità – possa costituire valida causa di impossibilità o di sopravvenuta onerosità delle prestazioni contrattuali assunte dalle imprese. Gli effetti giuridici del COVID-19 sui negozi stipulati dalle ditte nazionali, in sintesi, dovranno essere scrupolosamente valutati ed esaminati caso per caso, tenendo conto di una pluralità di fattori quali, a titolo meramente esemplificativo, l’applicabilità della legge italiana alla fattispecie contrattuale, i fatti portati a sostegno del ritardo e/o dell’inadempimento contrattuale, l’incidenza specifica degli stessi sulla prestazione, l’assenza di soluzioni alternative per l’adempimento, la portata del testo contrattuale.

[1] Si pensi, ad esempio, alle attività economiche delle imprese nazionali operanti nelle c.d. “zone rosse”.

[2] Si veda, ex multis, Cass. Civ., Sez. II, n. 2115 del 24.02.1995.

[3] Cass. Civ., Sez. I, n. 21250 del 06.08.2008.

[4] Cass. Civ. n. 15712 del 08.11.2002.

[5] La norma specifica, poi, che l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla.

[6] Giova ricordare che la “causa non imputabile” consiste in un impedimento insuperabile all’adempimento dell’obbligazione (vis cui resisti non potest), non dipendente da dolo o colpa del debitore. Deve trattarsi anche di un evento imprevedibile in relazione alla natura del negozio e alle condizioni del mercato.

[7] Ex multis, Cass. Civ. n. 119 del 11.01.1982.

[8] Cass. Civ., Sez. III, n. 14915 del 08.06.2018.

[9] Si vedano Cass. Civ. n. 22396 del 19.10.2006 e Trib. Roma, Sez. II, n. 7407 del 13.04.2017.

[10] È doveroso evidenziare, a tal proposito, che l’ordinamento italiano non conosce una definizione puntuale di “forza maggiore”. Secondo la dottrina e la giurisprudenza formatasi sul punto, questa ricomprende, in sintesi, eventi naturali o umani (es. terremoti o guerre) che, per la loro imprevedibilità e straordinarietà, sono di fatto non contrastabili in quanto fuori dal controllo delle parti.

[11] Trib. Milano, Sez. Spec. Impr., n. 8878 del 03.07.2014.